Diversity & Inclusion: quando le buone pratiche fanno la differenza

Un approccio alla D&I sempre più maturo, tra misurazione degli impatti e crescita economica

18 marzo 2022

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La capacità di un’azienda di essere inclusiva, accogliendo e integrando le varie diversità, è un tema di cui si sente parlare sempre più spesso. Ed è ormai dimostrato che implementare buone pratiche di D&I non è più solamente una questione di etica ma rappresenta un reale vantaggio competitivo per le imprese. Consumatori e consumatrici sono infatti sempre più attenti e sensibili e ad oggi sono molte le aziende che hanno iniziato a dotarsi di policies, strumenti e programmi di gestione della diversità. Sembra quindi che i tempi siano ormai maturi anche sul versante D&I.

Come succede a tutte le tematiche che da limitate a certi ambiti diventano pervasive, anche per la D&I cresce sempre più la necessità di dotarsi di strumenti che, per quanto possibile, la misurino, la valutino e ne rendano oggettivi gli impatti. A maggio 2021 l’ISO, la più importante organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche e standard per la certificazione, ha pubblicato la norma ISO 30415:2021 Human Resource Management – Diversity & Inclusion. L’obiettivo della ISO 30415 è quello di offrire un modello che consenta all’organizzazione di innescare un processo di miglioramento continuo delle proprie capacità inclusive e di valorizzazione delle diversità. Adeguarsi e certificarsi ISO 30415 significa controllare con un nuovo punto di vista processi HR fondamentali quali la pianificazione del personale, il reclutamento e la selezione, i processi di on boarding, la formazione e via dicendo, fino alla cessazione del rapporto di lavoro. La certificazione prevede anche alcune misure premiali, come ad esempio un esonero contributivo nella misura massima di 50.000 euro annui.

Oltre all’oggettivazione dell’impatto che una buona gestione di politiche D&I può avere sull’azienda, un altro importante trend è quello di smascherare la tendenza a fare del finto D&I, un’imitazione che serve solo a mostrarsi inclusivi, ma che è solo un modo per ripulirsi l’immagine con azioni che non hanno un riscontro vero nella realtà: nella fattispecie si parla di Diversity Washing, e per combatterlo serve un approccio sistemico alla materia.

Di questo, ma soprattutto di come affrontare le tematiche D&I usando il linguaggio del business - quindi i dati e la ricerca - si è parlato durante la quinta edizione del Diversity Brand Summit, evento ideato e promosso dalla no profit Diversity e dalla società di consulenza Focus Management, e che ogni anno stila una classifica dei brand percepiti come più inclusivi, con l’obiettivo di sensibilizzare le aziende in merito alla rilevanza etico-economica dell’inclusione.
Il dato maggiormente significativo, emerso dalla ricerca che poi ha portato a stilare la classifica, è quello relativo al passaparola, ovvero il Net Promoter Score (NPS), indice che viene direttamente collegato ai profitti di un'azienda e che misura il passaparola positivo (o negativo) da un cliente all'altro. In questo caso è stato misurato sull'inclusione percepita e le marche più inclusive confermano una leadership assoluta, con un NPS massimo pari all’86,5%.
Rispetto alle edizioni passate, appare evidente come le aziende abbiano continuato il percorso evolutivo sulla D&I, rivolgendosi maggiormente all’esterno. Negli anni è cresciuta la capacità delle organizzazioni di differenziare le attività di D&I interne rispetto a quelle esterne, seppure nella totale coerenza tra i due piani: infatti affrontare il tema della D&I in una prospettiva B2C, piuttosto che rivolto ai propri dipendenti, richiede approcci differenziati, ma ugualmente importanti per farne un vantaggio competitivo. Molte aziende italiane devono ancora acquisire la consapevolezza che il passaggio ad una gestione inclusiva aiuta la crescita economica, una consapevolezza che il mercato ha già.

È più facile comprendere questo passaggio se si fa un parallelismo con l’approccio green e la sostenibilità: l’ultima edizione del DIVERSITY BRAND SUMMIT aveva infatti come titolo “Planet-D: a diversity transition”, a sottolineare la profonda connessione tra le questioni dell’inclusione e quelle della sostenibilità, per mettere a fuoco il fabbisogno di una transizione umana, essenziale quanto quella ambientale.

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